Primavera dei Teatri // la rivoluzione, destino di Primavera

by Andrea Zangari (13/06/2019)

scenecontemporanee.it

(…) I conflitti sociali visti da questi sguardi rivolti al passato, si ripercuotono in altri due lavori che immaginano invece la soglia tra il presente e la sua proiezione distopica: The speaking machine della Compagnia Ragli e Noi non siamo barbari di Scena Nuda. Il primo lavoro è parte della rassegna Europe Connection, progetto teso a compaginare le drammaturgie europee e la realtà regionale, in collaborazione con PAV – Playwriting Europe. La scrittura dell’autrice catalana Victoria Spunzberg, tradotta da Davide Carnevali, è in fecondo equilibrio fra la dimensione scenica, tarata sulla misura attoriale, e tirate più letterarie. Una bipolarità che però è tutta nel tema, restando dunque pregnante: la macchina parlante è un automa femminile, la bravissima Dalila Cozzolino, dama di compagnia acquistata a prezzo d’occasione per via delle gambe fuori uso, che sublima il suo funzionalismo robotico leggendo Kafka alla ricerca dell’emozione nel linguaggio. È, cioè, una macchina piena di desiderio: Spunzberg esplora la necessità del parlare come dato umano irriducibile alla mera funzionalità meccanica. Per farlo dispone il paradosso di una non-umanità più umana dell’umano, umiliata da una controparte umana che invece degrada nell’animalità di appetiti pelvici e collerici in salsa pornografica, portati in scena dal convincente Antonio Tintis e dall’androgino e beffardo Antonio Monsellato. Al di là dei significati, resta piacevolmente viva nella traduzione l’effervescenza della lingua catalana, che tracima qui e là, eccede il piano visivo ed ogni altro connotato scenico, rafforzando l’impressione di un teatro di parola che è tale per amore delle parole, le quali potrebbero avere una vita altra, autonoma.

Noi non siamo barbari è un altro testo straniero, del drammaturgo tedesco Philipp Löhle, efficacemente tradotto in un’incessante forma dialogata tra due coppie, Mario e Barbara (Saverio Tavano e Teresa Timpano), Linda e Paul (Stefania Ugomari di Blas e Filippo Gessi). La conflittualità che abita tutti i lavori di cui stiamo parlando qui si fa intreccio, specchio dell’io che nella scrittura si interroga. Un indefinito avventore dalla pelle nera – ancora il nero che ammanta l’imperscrutabilità delle figure del destino – non compare mai in scena, ma regola tutti i rapporti della finzione. La disamina acquisisce velature filosofiche, quando si riveste l’unico oggetto scenico, un tavolo (svedese, ça va sans dire), di funzioni eterogenee che illuminano la fragile consistenza dell’identità: un bunker, un televisore, l’arma di un delitto. Nel simbolo della convivialità si possono insidiare le pulsioni di attacco e difesa, di comunicazione e di silenzio, ovvero le polarità fondamentali dell’essere, quale che ne sia il livello di civiltà. Noi non siamo barbari acquisisce così l’accento di un interrogativo, che coglie in pieno la mente (più che il cuore) degli spettatori grazie alle prove ineccepibili del quartetto di Scena Nuda. Un lavoro che ammicca all’uso cinematografico della parola, e che ancora nella parola si delinea e si compie.

Foto di Angelo Maggio

Anche in Semi. Senza infamia e senza lode di Stivalaccio Teatro è possibile scorgere la natura intimamente tragica del conflitto fra destino e identità. Uno spettacolo molto pop, messo in scena nel segno della commedia dell’arte e sotto maschere grottesche “a metà tra graphic novel e satira espressionista”. Un divertentissimo montaggio di micro-parodie su temi televisivi, social mediatici, letterari. In fondo, però, vi è anche una riflessione amara sulla guerra per difendere ciò che in potenza contiene, guardacaso, proprio le identità a venire: i semi. Una banca dei semi sperduta in un paesaggio nevoso è protetta da soldati che incarnano prototipi della cultura popolare, quali il compunto maggiore del Nord e lo scansafatiche pusillanime meridionale, ma rimandano anche ai grandi ritratti bellici del neorealismo. Due eco-terroriste improvvisate ma ferventi assaltano la base, con un finale surreale e che suscita più di una riflessione politica.

Persino l’opera più distante dai linguaggi sin qui ricordati, più prossima alla performance e debitrice dei repertori delle arti visive, ci ha parlato della tragedia dell’identità. Immagina un paesaggio eroico, della compagnia di origine ateniese – ma dal cast internazionale – Nova Melancholia, porta in scena una rapsodia poliglotta sulle lettere dal carcere di Rosa Luxemburg. La scrittura delicatissima è montata in un incastro di immagini eterogenee, evocanti gli stilemi del costruttivismo sovietico e le pratiche della body art. Un flusso a volte un po’ scolastico, ma che sfiora molti dei temi sinora indicati. Rosa Luxemburg, come l’Alfonsina di Fabio Marceddu, preconizza una rivoluzione gentile (e di genere), fatta di parole performate. In entrambi i casi, ed in certa misura in tutti quelli ricordati, il lavoro sulla scena indaga il disastro della storia nel suo compiersi sul corpo dei deboli: vinti ma vittoriosi, sublimati nelle scritture che dalle loro vicende, vere o immaginarie, traggono un respiro lirico. Salutiamo Castrovillari immaginando un paesaggio eroico, che appare brullo e arcaico come il Pollino. Sono passati vent’anni, e Primavera dei Teatri continua la sua rivoluzione gentile.

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